massimo assenza/fotografie

mostra fotografica SBARCHI / Contributi



Qualche anno fa, ebbi modo di assistere alla presentazione di un libro di Moni Ovaia.  Al termine della presentazione, dopo aver acquistato alcuni libri dell’autore, mi misi in fila per far apporre la dedica su di essi. Arrivato il mio turno, mentre porgevo il testo, l’autore mi chiese il nome, e subito dopo volle sapere che cosa io facessi  nella vita: "il fotografo” risposi.  Alzò la testa, mi guardò per un attimo e scrisse la dedica, anzi la disegnò, poiché oltre alle parole tracciò segni, simboli, linee che occupavano tutta la pagina e, prima di restituirmi il libro, mi anticipò quello che aveva scritto : A Massimo, ladro di anime”, alludendo, chiaramente, a quella concezione, diffusa presso alcuni popolisecondo la quale essere fotografati equivalga a farsi rubare l'anima. 

La sensazione, imbarazzante e sgradevole, di sentirmi ladro di anime, mi ha in realtà spesso accompagnato nel corso della mia carriera, soprattutto in quei frangenti in cui mi è toccato il compito di documentare il dolore, il dramma, la sofferenza, il lutto. In quei momenti ho temuto che la visione di per se distaccata ed imparziale  dell’obiettivo potesse diventare cinica ed insolente; ho sospettato che il mio lavoro, la mia stessa presenza, potesse in qualche modo rappresentare un attacco al diritto altrui di vivere la sofferenza con dignità, che potesse violare quella che io definisco la privacy del dolore.

Con questi dubbi,  dall' inizio di questo millennio, comincio dunque a documentare l’arrivo sulle nostre coste dei primi migranti, ed avverto, ancora una volta, netto, il sapore amaro di quella sensazione.

Pur facendo onestamente e seriamente il mio lavoro mi sento tuttavia ladro, scippatore, non solo nei confronti di questa povera gente ma anche in relazione ai divieti che solerti funzionari di polizia hanno imposto a fotografi, cronisti ed operatori televisivi. Mi sento clandestino tra i clandestini.

Comincio così ad accumulare immagini, a corredo di cronache giornalistiche.

Eseguo i miei reportage  in condizioni ambientali a volte estreme e tra divieti e minacce di sequestro dell’attrezzatura.

Il copione, quasi sempre, si ripete: l’arrivo al porto della carretta, il soccorso ai passeggeri malconci, le veloci perquisizioni dei clandestini in attesa sulla banchina, il loro imbarco, alla spicciolata, su pullman diretti ai centri di accoglienza. Individui sfiniti e prossimi alla resa, mettono in scena, con movenze, gesti e posture straordinariamente teatrali, la loro immane tragedia.

Sembra infatti di assistere, sulla banchina del porto, diventata d’improvviso la scena di un antico teatro greco, ad una silenziosa, surreale, drammatica rappresentazione teatrale.

Ho molto indugiato su corpi, volti, occhi ed espressioni per scoprire e conoscere chi c’è in fondo a quegli occhi, per decifrare quello che essi vogliono comunicarti quando la lingua e le parole falliscono, ed è accaduto che, in fondo a quegli occhi, io abbia visto la speranza di ogni migrante di essere accolto senza pregiudizi, che abbia letto il diario del viaggio che ha condotto a noi tutta questa umanità, ancora viva nonostante lutti, stenti e naufragi e mi son chiesto come è possibile che in mezzo a tutto questo ci sia ancora spazio per un sorriso. 

Ma è anche successo che io abbia percepito, attraverso i loro sguardi, il duro rimprovero di chi vede in tanta ostinata attenzione la violazione della propria dignità e del diritto di vivere il proprio dramma lontano da tutti i “Grandi fratelli” mediatici. E' stato proprio in tali momenti che ho sentito, nuovamente vivo e pressante, il richiamo a non infierire su questi individui, svuotati e privati di tutto, per non espropriarli anche dell’anima e della residua dignità.

Mi sono imposto allora di mantenere tra me e questa gente la giusta distanza (prendendo  in prestito il titolo del film di Carlo Mazzacutati  “La giusta distanza”), che è quella che  un fotografo dovrebbe essere in grado di interporre tra sé e gli avvenimenti che intende documentare: non tanto lontano da cadere nella indifferenza,  ma neppure così vicino da lasciarsi coinvolgere oltre il necessario.
La giusta distanza è in realtà una distanza soggettiva, che comporta spesso un equilibrio instabile e precario. Su questo sottile filo di lama ci si trova ad operare sulla banchina del porto.

Rileggendo tutta questa mole di immagini, mai definitivamente archiviate, sempre vive nel mio archivio mentale, scopro aspetti inediti e sorprendenti e individuo il filo conduttore, il minimo comune denominatore che contrassegna il mio lavoro: il Mediterraneo.

L’epopea degli sbarchi, infatti, mi sorprende mentre, con la macchina fotografica, percorro in lungo e in largo i litorali iblei, effettuando ripetute ricognizioni lungo la costa, che è linea di confine, limite, frontiera tra la terra e il mare, tra l’inizio e la fine.

Censisco relitti abbandonati, inseguo tracce e segni di antiche presenze, mi imbatto in una sagoma umana sfuggita ad una folla chiassosa e omologante

Ed è proprio lungo questa frontiera che intercetto un popolo in viaggio verso un futuro migliore.

La linea/frontiera diventa quindi, per migliaia di migranti, un immaginario, provvisorio traguardo.

La mostra vuole porre l’attenzione anche su questo aspetto, sugli istanti che precedono e seguono lo sbarco nella nostra terra. C’è una immagine in particolare che coglie e sintetizza questo momento, quella che ritrae un giovane ancora sospeso tra la barca e la banchina, tra il mare e la terra, fermato nell’attimo in cui effettua quello scatto che gli permetterà di passare dall’altra parte, di tagliare, appunto, il traguardo. Egli non porta nulla con sé, non tiene nulla tra le mani, ma il suo volto esprime felicità e fiducia nel futuro.

 Questo lavoro nasce da questi presupposti. Non vuole, ovviamente, affrontare il tema della immigrazione nel suo complesso, ma descrivere solo una tappa del viaggio, spesso tragico, di un intero popolo e riflettere sulle cause che lo spingono ad abbandonare la propria terra, ovvero carestie, fame, guerre, persecuzioni politiche e religiose.

Le immagini proposte spero possano essere di aiuto per riflettere su tutto ciò, ma anche per ripensare al nostro recente passato.

L’augurio è che ognuno, con le proprie chiavi di lettura, sappia porsi di fronte ad esse con occhio neutro, privo di pregiudizi e condizionamenti.

La realizzazione di questa mostra è stata, inoltre, l’occasione per ridare voce e volto ai tanti migranti in fuga, passati silenziosamente accanto a me, ma soprattutto per restituire a questi individui l’anima, momentaneamente presa in prestito nell’attimo in cui il loro sguardo ha incrociato il mio.


 Massimo Assenza                                                                                                                                                                                                                                                                                                  Ragusa, 4 febbraio 2011


                                                                               

Il grande esodo. Una moltitudine di uomini, donne e bambini spinti da sogni, memorie e speranze ad abbandonare le loro terre.

La storia di grandi masse di profughi, negli occhi dei quali è possibile leggere il profondo senso di sgomento per il distacco dalla madre terra e l'incognita del futuro in una terra sconosciuta.

E' da queste premesse che nasce il reportage fotografico di Massimo Assenza, che, seguendo le orme di famiglia nel fissare le immagini, gli eventi e il tempo, documenta la storia del profondo dissesto umano contemporaneo. Un racconto, il suo, di uomini e donne che approdano in una terra carica di memoria e storia, prima tappa e prima fonte di riposo. Le foto di Massimo Assenza, frutto dell' attenta osservazione di un fenomeno che caratterizza la società contemporanea, ci raccontano delle storie: di partenze, incontri, sofferenze, paure, avventure ma soprattutto di speranze. Una spiacevole realtà che fa riflettere e pone l'obiettivo su quei migranti, dai corpi provati ed esausti, che, attraverso deserti e mari, giungono clandestinamente sulle nostre coste nella speranza di una vita migliore.


Giuseppe Leone                                                                                                                                                                                                                                                                                                      
Ragusa, 4 febbraio 2011



Figlio d'arte e perciò sensibile interprete di quella passione che ha eletto la generazione degli Assenza a testimoni oculari degli eventi pubblici e privati di Pozzallo, Massimo Assenza, insieme con il fratello Ninì, custodisce sicuramente tra i suoi ricordi più cari il fascinoso miracolo della camera oscura, dove il nonno prima, il padre e la madre poi, tra ingranditori e vaschette, esumavano dal foglio bianco volti, storie, paesaggi e ritratti di città.

La fotografia, perciò, ha accompagnato la sua formazione culturale, professionale ed artistica, originando il suo inconfondibile stile, come si può evincere dal reportage titolato "Sbarchi", inaugurato a Ragusa negli spazi di Degustarte, dove aleggiano le stupende partiture della nostra isola, immortalata dal maestro Giuseppe Leone nei paesaggi dell'anima e nel cuore del tempo.

Né è meno importante ricordare che Massimo è anche figlio del mare, non solo per dato anagrafico ma per quella memoria esistenziale, che permette di captare il perenne respiro del mare, madre cosmica nel suo inafferrabile fluire oltre qualsiasi confine. Per questo la perspicua bellezza delle sue fotografie - evocative delle differenti risonanze che ciascun visitatore vorrà interiorizzare - mi ha sollecitato a chiedermi se la motivazione di fondo, magari inconscia, che ha ispirato il suo viaggio nel viaggio non sia da ricercarsi nel legame con la madre, l'indimenticabile signora Clara, anche lei arrivata via mare dalla tunisina Sfax nel lontano secondo dopoguerra. Mi sono convinta che il sentimento del mare abbia influenzato, e profondamente, la restituzione fotografica degli sbarchi come epifania d'umanità, esente dai clamori mass - mediatici, dalle contingenze di parte e da malcelati pregiudizi, purtroppo largamente diffusi.

Dalle sue fotografie, infatti, traspare un'etica dello sguardo che include chi non vi è abitualmente. Sono i migranti, ad ispirarlo, persone concrete, corpo e sangue di una sofferenza, di una ferita anche culturale, inferta dai disperati attraversamenti del mare con la speranza di poter abitare i confini dell'altro, una volta scampata la morte per sete, fame, annegamento. Ci soccorrono i versi di Emanuele Giudice, scrittore e poeta ibleo, che nel suo recentissimo "Come noi. Oratorio per migranti" ( Edizioni del Leone, 2010) dà voce ai naufraghi del nostro tempo, erranti tra deserto e mare:

"Orfani siamo / di futuro, / esausti di presente, / ci sfugge il dopo e le sue rive / mentre ci incalzano / fantasie di colori / diversi sconosciuti, / altri da noi.

Proprio la condizione dell'essere sospeso diventa, secondo noi, la chiave di lettura dei fotogrammi di Massimo Assenza. Associando sbarchi e migranti, eventi e persone, o se si vuole, pluralità e singolarità, si percepisce, e non solo visivamente, come allo spazio di sospensione della linea costiera corrisponda il tempo sospeso del migrante, ancorato paradossalmente al participio presente del verbo migrare.

Nel sapiente intreccio di primi piani e di sfondo, passi vacillanti demarcano l'agognato sbarco; mani nude accennano domande; volti inermi, vulnerabili ed occhi arsi di insonnie e di paure riverberano i sussulti di luttuosi e misteriosi fondali.

Nel dettaglio riservato al motivo dell'occhio, raffigurato sulla prua del barcone sequestrato agli scafisti, non riecheggiano solamente gli assalti di morte, che il simbolo apotropaico non è riuscito ad esorcizzare, ma si recupera anche la tradizione marinara mediterranea, che all'occhio di prua demandava la necessità di essere vigili per evitare le insidie della navigazione.

Nel rituale controllo sanitario e burocratico, gesti e posture sono fermati in spazi anch'essi sospesi, sempre in bilico tra mare e terra.

Nella desolata banchina portuale brandelli di plastica, di stoffa e d'altro, ondeggiano sospinti dal vento e disperdono pure le attese e i sogni di un'umanità in fuga, cui sono negati i diritti fondamentali dell'uomo.

Allora si comprende che per apprezzare questa mostra ci vogliono occhi che sappiano non solo vedere ma cogliere l'umano segno, che Assenza ritrae nella convinta adesione a quell'ecologia umana, capace di estendere i nostri orizzonti verso gli irrinunciabili universi del dialogo e della civile convivenza nel Mediterraneo che verrà.


Grazia Dormiente                                                                                                                                                                                                                                                                                                
Ragusa, 4 febbraio 2011



A Pozzallo fotografia è sinonimico di Assenza fotografi. Fotografi da generazioni. Massimo - con il fratello Antonio, odierni eredi di questa mirabile passione - è cresciuto tra bobine di celluloide per pellicole e sali di neuton per sviluppo e si è alimentato della stessa passione che fu del nonno, dei genitori, dei fratelli.

La mostra, che Massimo Assenza inaugura a Ragusa dal titolo perentorio quasi decretante "sbarchi", affronta per immagini un tema testimone di un fenomeno del nostro tempo. In questi ultimi decenni lo Sbarco ha occupato le cronache locali e ha condizionato il vivere social e dell'isola. I migranti, che sbarcano nelle coste siciliane, portano tutti un comune carico di angoscia e di speranza, che limpidamente si leggono nei ritratti di Massimo Assenza.

I visi sfigurati dalla fatica, dai tratti segnati e sofferenti.

Gli occhi pieni di grumi di salsedine, solidificata nelle paurose notti di viaggio.

Le espressioni tratteggiate da una mimica di spavento per l'incognita che a loro il futuro riserverà.

I patimenti e le certezze lasciate al porto di partenza, le speranze delegate tutte a un viaggio e allo sbarco cui affidare l'aspettativa di una modalità esistenziale migliore.

Sono segni inequivoci di un disagio notevole.

Questo stato dell'anima si percepisce nelle foto di Massimo Assenza.

Ammassi di persone private di ogni decoro umano, cercano in terra straniera, nuova possibilità per il loro futuro. Massimo Assenza - con delicatezza e sensibilità - effettua le prese sorrette da quell'occhio assoluto che solo il fotografo possiede, senza strumentalizzare la difficoltà di quel prossimo dolente. Il fotografo tratta i soggetti con grande rispetto, tralasciando il clamore del reportage che deve fare a tutti i costi notizia. Le scene tutte sono pervase da un imbarazzante silenzio. Non viene proferita parola. Solo i gesti e le azioni in afflizione si intuiscono, nel loro lento volgere verso una difficile legalità.

Eppure, in quella sconvolta atmosfera, il fotografo, - cerca, con predilezione estetica - il ritratto femminile dai lineamenti armonici, dalla pelle ambrata di assoluta omogeneità, di un'espressione che con la drammaticità della scena, appare incongrua. Altre volte cattura addirittura un gesto di contentezza, quasi di felicità per un pericolo scampato, per un desiderato rilancio alla vita.

Mai la luce è tagliente dalle ombre chiuse e dure, sempre feconda ed affettuosa nel modellare i soggetti, nel riportare con grande emotività ed amorevolezza lo stato di mani che implorano soluzione a bisogni primari. Lo stato, fuori dal nostro tempo presente, di chi sa attendere. Di chi sa aspettare e aspetta per ore e per giorni, che qualcuno si accorga della loro superstite esistenza.

Chissà quanti di quei volti, coagulati per sempre in uno scatto fotografico - dopo il rito del riconoscimento - sono diventati degli invisibili. Naufraghi in terra straniera, catturati da un nuovo inesprimibile dolore.

Chissà quanti non sono giunti al cospetto dell'obiettivo attento di Massimo Assenza e si sono inabissati in quel canale. Sepoltura d'acqua irrequieta, che tutto inghiotte in un oblio crudele.


Lino Bellia


Petralia, Sicilia,1900. In un arido paesaggio lunare, Salvatore Mancuso si prostra innanzi al simulacro della Madonna. Un sasso in bocca macchiato di sangue è il sacrificio offerto a Maria nel tentativo di strapparle un delfico responso al lacerante quesito: Ca ma fari? A ma partiri o ama ristari ca? / Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo partire o dobbiamo restare qua? Il suo futuro non è la più la sua terra e la 'Merica offre lui l'illusione di un mondo più giusto infranta poi nel marchio indelebile dei durissimi controlli di un nuovo mondo troppo arido per accogliere le sue lacrime.

Pozzallo, Sicilia, 2011. Altri tempi, altre acque, altre terre. Gli Sbarchi di Massimo Assenza  risultano attualissimi nel dramma nordafricano che si sta consumando nel nostro mediterraneo. La Sicilia, un tempo isola di emigranti, oggi è la terra in cui albergano nuove speranze. La mostra Sbarchi narra di corpi duramente provati dalla traversata, tragedie vissute e in corso, sguardi terrorizzati da un minaccioso passato e da un presente dal futuro incerto alla ricerca disperata di un nuovo mondo. Laddove la coraggiosa azione degli aiuti umanitari fallisce e lascia spazio ad una nuova Ellis Island di migranti in condizioni disumane, la tragica profezia di Don Fabrizio continua fatalmente ad avverarsi nel suo ciclico vichiano corso e ricorso storico di una storia destinata a cambiare atti e teatri affinché nulla realmente cambi nella trama. Ecco che, alle volte, fotografare diventa un antidoto all'oblio e all'indifferenza. Esente da fredda imparzialità o furtiva estorsione di anime, l'occhio del fotografo Assenza, delicatamente, fissa nel perimetro cartaceo di una fotografia, gesti ed espressioni destinati ad essere sublimati nella coscienza della memoria collettiva. I loro volti, indimenticabili, urlano il loro strazio in un composto silenzio e ci sfidano per una volta a interrompere il ciclico corso e ricorso storico dell'Isola delle lacrime degli emigranti che troppe volte ancora si perpetua e ci sfidano, assieme a loro, a fondare il nuovo mondo della civiltà.

Alessandra Assenza



MASSIMO ASSENZA: L'OBIETTIVO CHE SCRUTA

La storia di Pozzallo, ridente cittadina mediterranea, nel Novecento passa per il genio fotografico di un'eccellente famiglia, gli Assenza, che nelle immagini hanno fissato mirabilmente sequenze di vita o di fatti, che ci giungono dal trascorso secolo per ancora, oggi, testimoniare la vivacità della gente di quella città marinara e il senso dell'avventura che predilige e ricerca gli spazi del mondo, le prospettive dell'esistenza come bisogno di conoscenza, di civiltà e umanità che trovano la propria affermazione nelle prove ardimentose, e talora estreme del confronto e della coesistenza con l' "altro", che non è mai l'altro-da-noi ma, come noi, il cittadino del mondo.

Questa premessa, per dire che mi pare di respirare aria cosmopolitica a Pozzallo e, soprattutto, tra l'intellighenzia, sempre reattiva, di quella cittadina dai viali lunghi che costeggiano il mare, come a volerlo mostrare insieme alla esibita Torre Cabrera, piccola-grande pagina della più vasta pagina di storia e di antropologia scritta intorno al biblico mare, "luogo" di civiltà plurali, di storia, di archeologia e di tradizioni e religioni che si incontrano e scontrano...

Bene, tutto questo sembra rivelarsi alle generazioni pozzallesi nel bianco e nero di lastre che prendono forma e vita dalle penombre dei laboratori degli Assenza, nei quali esercitò l'arte della fotografia anche Clara (mamma di Massimo) dopo la morte prematura del marito, Meno, guidata dal suocero Antonino, capostipite della famiglia.

È quanto ricorda anche la storica Grazia Dormiente (già studiosa di La Pira), coadiuvata, durante l' incontro pozzallese per la mostra di Massimo, da un attento moderatore come Giorgio Fratantonio.

Soffermiamoci per un attimo sul padre di Massimo, Meno Assenza. Fotografo, intellettuale e politico di rilievo, negli anni Cinquanta seppe conciliare le esigenze artistiche espresse attraverso l'obiettivo e le esigenze socio-politiche e socio-storiche con raffinata tecnica e con impegno, particolarmente riguardo all'aspetto antropologico della vita a Pozzallo.

Ebbi il piacere e la sorpresa di conoscere Massimo Assenza nell'occasione della nota mostra fotografica sugli "sbarchi", organizzata dal Comune presso il Centro polivalente Spazio Cultura "Meno Assenza". Una mostra che mi si presentò subito come celebrazione della vita e della storia del migrante ovvero l'epopea del dolore delle genti del mondo, che nell'esodo creano storie e nuovi modi di vivere che si accompagnano e segnano il processo di un' etica dell'integrazione, sempre complesso, lungo, penoso.

Debbo confessare che, nell'occasione della mostra, ho provato ammirazione per i rappresentanti politici della città: dal Sindaco al Presidente del Consiglio Comunale, all'Assessore alla Cultura, per la sensibilità, l'interesse e le curiosità intellettuali con cui hanno seguito l'evento-mostra, poi definito dalla scrittura professionale e ariosa del giornalista Michele Giardina, la cui eleganza umana egli sa ben tradurre nello stile incisivo e sciolto della parola giornalistica.

C'è poi Grazia Dormiente, alla quale va il merito dell'abbinamento dei miei versi sui migranti alle scene fotografiche sugli "sbarchi" di Massimo Assenza.

Momenti di forte tensione emotiva mi suscitò la lettura di Carmen Attardi, che sembrò toccare il diapason delle vibrazioni del cuore, mentre mi dividevo tra la sua voce e la plasticità dei corpi ripresi dall'obiettivo di Massimo. Una plasticità che ci ricorda l'ottocentesco olio di Théodore Géricault, dove l'abbandono lo sfinimento la disperazione lo strazio dei corpi e dei volti non sono che il preludio e l'epilogo di una morte inevitabile quanto crudele. Ed è qui che gli "sbarchi" ripresi da Massimo Assenza si incontrano con i versi del mio Elegia del frammento: "Ma ancora ci si chiede se la saracinìa/ sommerge la cristianitade?/ Noi siamo il mondo delle moltitudini/ etniche che si solleva nella solitudine/ della diaspora, nella sua epica tragica [...]".

Di quelle moltitudini, l'obiettivo umanizzante e "umano" di Assenza ferma persino il tumulto degli stati d'animo e dei pensieri, guidato da un'esperienza che è insieme sensoriale e razionale, cogliendo l'attimo del verismo estremo – direi malavogliano – del terrore del naufragio.

Si potrebbe pensare che l'arte della fotografia è nel DNA di Massimo Assenza, il cui clic sa cogliere la lacerazione del dramma e disvelare realtà profonde, può cogliere insieme gestualità e espressione, insomma i linguaggi del corpo che esprimono il pensiero tragico della realtà del mondo. Un obiettivo intelligente, dunque, che trae la sua capacità di intelligere, capire, dall'intenzione e dalla ricerca estetica della mente dell'artista che riprende l'attimo significante dell' “oggetto” nel preciso momento di un gesto, di un atteggiamento, di uno sguardo, di una smorfia, di un grido, di un bisbiglio investiti e avvolti da effetti di luce mirati a determinare profondità e tridimensionalità.

Mi torna ancora la moltitudine anonima e dolorante... Figure o sagome? uomini o manichini? massa o individui estranei alla nostra razza?

Nel loro strazio, nel loro dolore di esseri umani, derelitti sfruttati perseguitati svenduti traditi ingannati, noi ci specchiamo per comprendere l'oltraggio della sofferenza e dell'emarginazione. A noi simili, ma privati degli affetti e della terra madre che li generò. Bene, tutto questo e altro ancora leggiamo nelle foto scattate da Massimo Assenza, il quale sa come fermare negli occhi dei migranti paura disperazione diffidenza e invocazione di aiuto, nel nome di quella simiglianza che accomuna gli umani e contro la crudeltà dell'esodo che riporta alla memoria marce bibliche di infinito disagio e di tragiche schiavitù. Sì, tutto questo e altro ancora sa leggere Massimo nei volti definitivamente impressi nei suoi fotogrammi. Per esempio, il peso delle lacrime che sopportano l'indifferenza del mondo, la sua lontananza, il senso di un confuso abbandono che è solitudine, ma anche disprezzo.

Non è da tutti possedere il pregio di un “occhio” fotografico che scende nelle profondità dell'animo umano scrutandolo e ne estrae sdegno e paura e abbandono; e invocazione di pietà e di solidarietà agli uomini e al Cielo, animando fotogrammi, accendendo la loro inerzia, vivificandoli.

Ci sembra sia questa l'arte del fotografo che può affiancarsi all' Arte e trasmettere all' “oggetto” soffi di vita. Il segreto è sempre nel dialogo empatico con l'obiettivo che contempla e incanta per la magía dell'immagine o strazia per la sofferenza estrema di certe realtà invivibili della storia.

Giovanni Occhipinti


 

SGUARDO MERIDIANO   versi di Grazia Dormiente

 

intervista di Samantha Viva

 

inserto  GLI ANGELI DEL MARE

 

GHOSTS

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Goletta VERDE

 

Associazione GIOVANIDEE


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